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L'Italia, si sa, è un museo a cielo aperto, con la più grande quantità di resti archeologici al mondo. Ma qual è in realtà la capacità di lettura e di comprensione del passato racchiuso in questi resti materiali da parte dei cittadini, e soprattutto di quelli delle aree urbane dove maggiore è il numero delle rovine, persino nelle periferie? La risposta prova a darla una archeologa, che in questo libro mette a nudo le responsabilità delle istituzioni e al contempo propone una nuova alleanza tra le esigenze della salvaguardia e i bisogni di trasformazione della città contemporanea. Sotto accusa è l'uso pubblico dei resti archeologici finora praticato in Italia, seppure in forme tra loro contrapposte: dall'uso politico del patrimonio storico privilegiato dal fascismo alla opposta, ma per certi versi speculare, sacralizzazione dell'antico subentrata nel periodo repubblicano. In entrambi i casi le rovine hanno finito col rimanere realtà indecifrabili, incapaci di sollecitare nei cittadini una riflessione partecipata sul loro significato. Ecco perché in queste pagine si delinea una vera e propria strategia di gestione che, guardando anche all'esperienza europea, abbia l'obiettivo di rendere familiari agli abitanti dei diversi contesti urbani i resti immobili alla cui ombra essi vivono le loro vite.